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Tempus Tenera

Acquedotto Augusteo del Serino Tempus Tenera - Julia Campbell - Gillies a cura di Chiara Cesari in collaborazione con Associazione Vergini Sanità

TEMPUS TENERA

Julia Campbell-Gillies

Secondo Freud, non è la bellezza a perire, bensì l'essere umano, a causa della sua condizione esistenziale. La

bellezza della natura, scelta per questa esposizione, rappresenta quella che rifiorirà ogni anno, in un eterno

ciclo di rinascita.

Le installazioni floreali di Julia intendono esplorare il significato della vita, la sua temporalità e le sue fasi:

era, è e sarà. Questa è una condizione alla quale tutti noi siamo soggetti, poiché anche noi ci troviamo sotto

l'influenza delle leggi naturali. La condizione in questione è oggetto di indagine da secoli, anche nell'ambito

della pittura; si pensi, ad esempio, alla Vanitas (natura morta con elementi simbolici), che rappresenta un

monito riguardo all'effimera natura dell'esistenza.

In un contesto così antico come l’Acquedotto Augusteo, la vita può sicuramente rinascere e

conseguentemente anche morire. Il ciclo vitale della natura si manifesta attraverso le istallazioni di

Julia, la quale ha scelto con grande attenzione varietà di fiori e piante che prosperano esclusivamente durante

questo periodo invernale. Inoltre, il rispetto per la stagionalità riveste un'importanza notevole, poiché ogni

aspetto è governato dalla legge naturale e scandito dal tempo.

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Non vi è nulla di artificiale in questa mostra; è la stessa natura a guidare i visitatori lungo questo percorso

silenzioso ma carico di significato.

I fiori, con i loro colori vivaci, sono percepiti come la risposta sorridente della Terra all'arroganza degli esseri

umani che si illudono di poterla dominare. Essi rappresentano gli unici elementi che mantengono ancora un

collegamento con la Natura e che occupano una posizione centrale nella scena. Quella natura rappresentata

dai fiori conserva ancora il senso delle cose: vive e muore per poi rinascere. Gli oggetti circostanti stimolano

riflessioni sulla caducità dell'esistenza, riportando l'attenzione sull'effimero e sul superfluo, sull'assenza di

valore e sulla bellezza falsa e artificiale.

L'Acquedotto del Serino incornicia magnificamente questa straordinaria varietà di piante selvatiche,

bozzoli e fiori, evocando in noi il concetto di Sublime e richiamando alla mente le poesie di Lord Byron e,

ancor più profondamente, i pensieri del filosofo, critico d’arte e poeta Ruskin, attivi entrambi nel XIX

secolo. In particolare, ci si vuole soffermare su un passaggio scritto da Ruskin mentre osservava l’Ariccia, un

estratto che risulta particolarmente significativo e in armonia con le dolci istallazioni di Julia:

“(...) Non posso definirlo colore, era una conflagrazione. Purpurei, cremisi, scarlatti come le tende del

tabernacolo divino, gli alberi esultanti sprofondavano nella valle in una cascata di luce, e ogni singola

foglia fremeva di vita esuberante e infuocata; ognuna, al voltarsi per riflettere o trasmettere il raggio di sole,

si trasformava prima in torcia e poi in smeraldo. Lontano nella cavità della valle le verdi vedute si

incarnavano come fosse di potenti onde in un mare cristallino, con i pendii cosparsi di una spuma di fiori di

corbezzoli e di fiocchi argentei di zagara lanciati nell’aria circostante o ricadenti come mille stelle sulle

grigie pareti rocciose, ora fievoli ora splendenti (...).” 1

Le parole ispiratrici del giovane Ruskin sembrano a volte catturare l'essenza delle delicate composizioni che

si trovano nel sito archeologico. Si crea così un legame visivo, poetico e critico con un passato come quello

dell'800, che continua a vivere oggi attraverso questa mostra che ne celebra la bellezza.

Questa vita, che in alcuni casi è ancora destinata a esplodere o a perire, trova la sua espressione all'interno di

questi bozzoli di Iris Reticulata, dolci Crocus che si fanno strada nel muschio che li nutre, e negli splendidi

Narcisi che si mostrano con orgoglio, senza dimenticare i Ciclamini. Tutti questi fiori invernali, alcuni già

sbocciati e altri ancora in attesa di farlo, così come quelli prossimi alla morte, sono colmi di significato

poiché è opportuno ricordare che i fiori comunicano un loro linguaggio. A questo punto è necessario

affermare che questa installazione dell’artista Julia Campbell-Gillies, rappresenta un percorso ricco di

significato morale; ogni dettaglio di queste nature viventi racconta una storia.

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Pertanto, intendiamo iniziare con il Croco, una pianta conosciuta da secoli e menzionata da Omero nell'Iliade

e nella descrizione del talamo nuziale di Giove e Giunone, il quale, secondo il poeta, era adornato da fiori di

croco. Nella mitologia greca, Crocus è il nome del giovane innamorato della ninfa Smiliace. Quest'ultima,

essendo la favorita del dio Ermes (Mercurio per i romani), venne trasformata in un fiore a causa della gelosia

del dio.Il fiore per i greci era simbolo dell’amore passionale e l’amore coniugale; per i romani era il simbolo

della speranza di una serena vita ultraterrena, difatti veniva piantato sulle tombe dei defunti; durante l’età

Vittoriana il significato cambiò in giovinezza spensieratezza .

Non è da sottovalutare l'importanza del Narciso, un fiore indissolubilmente associato alla figura del

leggendario Narciso, il quale morì annegato mentre si contemplava e si perdeva nel proprio riflesso, come

narrato da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Oltre al suo legame con Ovidio questo affascinante fiore 

rappresenta sicurezza e autostima, è utilizzato quando si vuole trasmettere speranza per il futuro, infatti il

narciso è simbolo di rinascita e rinnovamento, poiché è uno dei primi fiori a germogliare dopo il gelo

invernale.

Altro fiore presente è il Ciclamino, nell’antica Roma era considerato un amuleto per proteggersi da

maledizioni e minacce animali, come i serpenti. Ma aveva anche un significato afrodisiaco poiché regalato a

giovani sposi.

È presente anche l’Elleboro che possiede un forte significato simbolico di rinascita e speranza a causa della

sua fioritura che avviene solo in inverno.

Infine, desideriamo focalizzarci sul Giacinto. La mitologia greca offre una narrazione riguardante l'origine di

questo fiore: Apollo, dio del canto, della musica e della poesia, e Zefiro, dio del vento, si erano entrambi

innamorati del giovane Giacinto. Un giorno, mentre i due dei si dedicavano al gioco del lancio del disco,

Zefiro, consumato dalla gelosia, alterò la traiettoria del disco stesso, colpendo mortalmente Giacinto al

tempio. In seguito a questa tragica perdita, Apollo trasformò il giovane efebo in un magnifico fiore: il

giacinto.

 

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Poiché queste installazioni sono strettamente legate alle rappresentazioni di nature morte e al contesto

dell'epoca romana, si è indagato l’origine di tali rappresentazioni e la storia della definizione di "natura

morta".

«Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione di possibilità di godimento aumenta

il suo pregio.» Per Natura Morta si intende un genere pittorico che si concentra sulla raffigurazione di 2

oggetti inanimati quali fiori, frutta, cibo, strumenti musicali, tessuti o animali morti che, caricati significati

simbolici, si ricollegano a concetti come la vanità, la morte, il tempo che passa, la ricchezza, la fragilità della

vita.

Il termine venne coniato in epoca moderna e serviva prettamente ad etichettare un genere inusuale, che

poneva la sua attenzione su soggetti che fino a quel momento erano stati marginali nell’ambiente artistico,

mentre ora assumono un’aurea di sacralità.

Ma l’origine del genere artistico delle Nature Morte va ricercata nell’antichità greca e romana. Il gusto per la

rappresentazione realistica di oggetti comuni venne infatti esaltato da diversi personaggi dell’epoca, come

Aristotele che parla di un vero e proprio “diletto se le contempliamo (le nature morte) nelle loro riproduzioni

soprattutto eseguite il più realisticamente possibile”. E sembra quindi inevitabile nominare il caso di Zeusi e

Parrasio, considerati i due pittori più abili del mondo antico e che nel 400 a.C si sfidarono in una gara di

pittura per stabilire chi fosse il più bravo nel genere realistico. Diversi studiosi infatti vedono nello scherzo

ideato da Parrasio nei confronti di Zeusi l’unico motivo d’essere della natura morta ovverosia come mera

perizia tecnica o padronanza del mezzo espressivo. Successivamente però il tema si diffuse anche a Roma a

partire dal II secolo a.C., contando una grande varietà di nature morte: da semplici composizioni di frutta e

verdura a scene più complesse che includono animali, utensili da cucina e oggetti di culto. I frammenti di

arte giunti fino ai giorni nostri, prettamente riproduzione artistica pompeiana, possono suggerire una

funzione limitata esclusivamente alla sfera architettonica o decorativa, ma in realtà non è mai fine a sé stessa.

Questi oggetti, a seconda del contesto in cui sono rappresentati, possono assumere significati diversi.

La testimonianza di Flavio Filostrato il Vecchio aiuta a comprendere l'apprezzamento della tematica

nell'antichità. Le sue osservazioni, sebbene successive di un secolo alle pitture pompeiane, rispecchiano un

ideale di realismo pittorico che affonda le radici nell'ellenismo. “Perché non prendi questi frutti che

sembrano fuoriuscire dai due cesti? Non sai che se aspetti anche soltanto un poco non li troverai più come

sono ora, con la loro trina di rugiada?”. Il soggetto diventa la ut pictura poesis, quest’arte che quasi supera in

rappresentazione la natura. L'insistenza di Filostrato viene calata proprio sulla capacità della pittura di

imitare la realtà al punto da ingannare l'osservatore, di confondersi con essa come dimostrano gli aneddoti su

Zeusi e Parrasio, e ne sottolinea una continuità anche nei secoli a seguire. Ma soprattutto evidenzia il potere

dell’arte di fermare sul supporto scelto la bellezza fuggente del reale, cosicché “i frutti che sembrano uscire

dai cesti” finiscono per contaminare il mondo in cui viviamo.

È questa l’essenza di un’arte che sa “animare le cose morte”, come disse Diderot contemplando un’opera del

francese Jean-Baptiste-Siméon Chardin. Da qui la limitata attinenza dell’ossimoro “morte-vita” presente

stesso nel nome del genere, “natura morta”. Di fatti potrebbe risultare più intuitivo il termine francese «vie

silencieuse», “vita silenziosa”, o quello olandese che usa la denominazione «stuckie stil leggend goedt»,

tradotto letteralmente come “oggetti giacenti bene in riposo, in quiete”. Un po' meno quello inglese, che

rincorre una forma di vita ferma, immobile, i cosiddetti «still life».

Ma è proprio grazie al contrasto della vita che fuoriesce dall’immortalità degli oggetti ritratti che si crea una

tensione tale da invitare lo spettatore a riflettere sulla condizione umana e sulla transitorietà dell'esistenza,

sull'importanza di cogliere la bellezza anche nella sua caducità. Le varie composizioni, studiate nei minimi

particolari, permettono all’artista la “conoscenza dell’idea quale pura contemplazione, assorbimento

dell’intuizione, smarrimento di sé, nell’oggetto, oblio di ogni individualità”.

Pertanto l’immobilità degli oggetti si traduce in una trappola per la mente, perché non ci si ferma al solo dato

visibile ma si finisce inevitabilmente per scavare in profondità, alla ricerca di quei simboli che svelano il

tessuto celato dell’anima di chi è chiamato a rappresentarla ma anche, successivamente, di chi ad ammirarla.

È nella loro staticità che le nature morte innescano una vastagamma di emozioni, idee, un flusso di pensieri.

È la loro presenza silenziosa, apparentemente innocua, che cela un potere evocativo e diventa un invito alla

riflessione, spingendo chi osserva a indagare in sé stesso e sul grande interrogativo della vita.

 

Testo a cura di Chiara Cesari e Camilla Petricciuolo.

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Tempus Tenera- Julia Campbell-Gillies a cura di Chiara Cesari in collaborazione con Associazione Vergini Sanità

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Julia Campbell-Gillies

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